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L'affaire Moro di Leonardo Sciascia
Scritto a caldo nel 1978, questo libro non ha che guadagnato con gli anni. Mentre, in una nobile gara di …
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Scritto a caldo nel 1978, questo libro non ha che guadagnato con gli anni. Mentre, in una nobile gara di …

«Un libro avvincente, capace di toccare ogni registro dell'esperienza (e della scrittura): epico, tragico, comico, romantico» (Vittorio Lingiardi, «la Repubblica»). …

Il libro è il racconto in prima persona di un americano trasferitosi con la famiglia in Germania dopo la prima …

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Avviso sul contenuto Fine del capitolo 7
Poi fu la sua volta. Aveva già raggiunto i cinquantanni e l'idea del matrimonio non gli era mai passata per la testa. La donna non entrava nel severo impegno del vivere. Le donne che gli giravano intorno erano massaie, o vendemmiatrici o raccoglitrici di olive, e come tali le vedeva. In città, non aveva relazioni di nessun genere. La sola casa che frequentasse, nelle sue rare uscite, era quella di canonico Murtas, un vecchio sacerdote venuto da Olzai, cioè da uno di quei paesi che gravitavano su Nuoro, il quale viveva in una casetta vicino al Corso, con la decrepita madre, e una matura nipote, che si chiamava Franceschina. Franceschina era nubile, ma non era quel che si dice una zitella. La zitella è una donna rifiutata dall'amore, e l'amore non aveva avuto a che fare con lei più di quanto non avesse avuto a che fare con Don Priamo. Era rimasta così, allo stesso modo come tante altre si erano sposate: con la certezza dello zio prete, della vecchia nonna, di se stessa. Soprattutto di se stessa, perché nel suo tranquillo orizzonte, e forse proprio per la presenza di quel prete in casa, sentiva l'eternità del suo passaggio sulla terra, di ogni passaggio, l'eternità delle piccole cose che si fanno, dei preparare il pranzo e la cena, del fare la calza, del conversare sul divano del salottino, con la Madonna e i santi sotto le campane di vetro. E chi è eterno non si sposa. In quell'eternità penetrava quasi ogni giorno da almeno vent'anni Don Priamo. Scendeva all'imbrunire da Santa Maria, e andava a sedersi su quel divano, immergendosi in quei silenziosi conversari. Era la sola conoscenza che avesse, ed era sempre il benvenuto, perché era di buona famiglia, e dava, quando ne era richiesto, dei buoni consigli. Tanto lui quanto Canonico Murtas avevano l'uso del tabaccare, e si scambiavano le prese dalle tabacchiere di madreperla. Ora (questo doveva raccontarlo lo stesso Don Priamo vent'anni dopo al nipote più piccolo, una sera d'inverno, sul canto del focolare), in uno dei tanti giorni che trascorrevano nella casa di Santa Maria, era accaduto che Don Priamo guardasse il padre, che si era addormentato mentre mangiava, e si accorgesse che era vecchio. Aveva già passato gli ottanta. Una cosa gli apparve allora molto chiara: e cioè che il padre poteva morire. E se il padre fosse morto, egli sarebbe rimasto completamente solo, in balìa di una domestica, anche lui già così avanti negli anni. Quella solitudine lo spaventò. Allora aveva preso il cappello (che aveva mantenuto la forma che aveva dal cappellaio, con una leggera ammaccatura da un lato) e aveva varcato la soglia della casetta del canonico. Un giorno assolutamente come un altro. Il canonico non era ancora tornato, e Franceschina lo attendeva seduta sul divano. Don Priamo, quella volta non si sedette, ma rivolgendosi a lei, le disse: «Sono venuto per chiederle se vuol venire a casa mia a far da padrona». Poi, senza lasciarle il tempo di riaversi : «Una cosa le aggiungo. Non mi risponda subito. E se mi dirà di no, non pensi che me ne avrò a male. Resteremo amici come prima». E se ne andò a casa, senza neppure salutare. Franceschina doveva aver risposto di sì, perché ora erano in tre nella casa di Santa Maria. Nulla era cambiato, né in lei né fuori di lei: solo che chiamava Priamo quell'uomo che per vent'anni aveva considerato con soggezione, e l'aveva fatta diventare Donna Franceschina (un titolo un po' in contrasto col dialetto dei paesi che non era mai riuscita a sostituire con la severa parlata di Nuoro). Nessun matrimonio era stato più felice, perché Franceschina non aveva fatto che estendere al rapporto coniugale la sua certezza. Figli non ne erano venuti, ma questo non aveva nessuna importanza. Né l'uno né l'altra sentivano il bisogno di continuarsi, perché non avevano il senso della propria incompletezza. Per i beni ci sarebbe stato tempo a pensarci, e anche quelli in fondo erano legati alla propria esistenza, di cui erano tranquillamente convinti. Il cambiamento che si era introdotto nella vita di Don Priamo era che, all'imbrunire, quando egli doveva tornare a cavallo dalla campagna, Franceschina si metteva alla finestra incorniciata di bianco, grande come una feritoia, e aspettava il marito. Don Priamo la vedeva di lontano, e l'ombra di un sorriso illuminava i suoi occhi foschi, tagliati a mandorla. I nuoresi se ne erano accorti, e uscivano dai casolari per assistere alla scena. Il sorriso di Don Priamo non era ridicolo. Era il segno dell'infinito che entrava in quella finita società coniugale, fatta di piccole opere quotidiane, di modesti adempimenti, così perfetta che non aveva neppure bisogno di Dio. Le campane della chiesa incombente invano battevano l'ora che passa: nella casa di Priamo e di Franceschina il tempo non passava affatto. La sola novità era che Don Priamo, sposando Franceschina, aveva scoperto lo spazio, perché gli era toccato andare per la prima volta fuori di Nuoro, a Olzai, per presentarsi ai parenti della moglie. Venti chilometri a cavallo: un'impresa che non si sarebbe ripetuta mai più. Franceschina aveva qualche piccola cosa al suo paese, ma egli l'avrebbe scrupolosamente amministrata senza bisogno di muoversi. Gli affittuari sarebbero venuti loro, al momento giusto, con i danari dell'affitto, e con i formaggi nella bisaccia, che sapevano di mirto e di menta. Con l'occasione, anch'essi avrebbero chiesto a Don Priamo dei buoni consigli. E questo Don Priamo, il fratello Matteo l'aveva già collocato nell'inferno, in attesa che Franceschina lo raggiungesse.

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Parliamo di spettro proprio per far emergere e rappresentare la complessità dell'esperienza asessuale, non per classificare in maniera rigida ogni aspetto della nostra sessualità. È certamente vero che l'ossessione turbocapitalista per il personal branding può spingerci verso una continua parcellizzazione e hashtagizzazione della nostra identità, ma la sacrosanta riflessione sui meccanismi socioculturali che influenzano la nostra vita non dovrebbe mai tradursi in sovradeterminazione dei bisogni altrui. Le microetichette che compongono lo spettro asessuale sono state create perché, banalmente, ciò che non ha un nome non esiste, e dunque viene riassorbito dalla norma, cancellato.
— Lo spettro dell'asessualità di Francesca Anelli (Pagina 16)
L'argomento del libro è interessante, un po' meno come è presentato. In pratica secondo l'autore la maggior parte dei prodotti tipici che nel marketing descriviamo come frutto di tradizioni secolari sono i realtà creazioni degli anni 70, perché o erano prodotti fatti anche da altre parti o addirittura frutto di innovazioni abbastanza recenti. Leggere la storia della cucina italiana del Medioevo ha il suo perché, ma delle filippiche dell'autore contro il modello produttivo italiano che tirano in ballo persino Pasolini ne avrei fatto volentieri a meno. Lo stile è molto polemico ma a volte un po' confuso. Comunque si legge in fretta