Poi fu la sua volta. Aveva già raggiunto i cinquantanni e l'idea del matrimonio non gli era mai
passata per la testa. La donna non entrava nel severo impegno del vivere. Le donne che gli
giravano intorno erano massaie, o vendemmiatrici o raccoglitrici di olive, e come tali le vedeva.
In città, non aveva relazioni di nessun genere. La sola casa che frequentasse, nelle sue rare
uscite, era quella di canonico Murtas, un vecchio sacerdote venuto da Olzai, cioè da uno di quei
paesi che gravitavano su Nuoro, il quale viveva in una casetta vicino al Corso, con la decrepita
madre, e una matura nipote, che si chiamava Franceschina. Franceschina era nubile, ma non
era quel che si dice una zitella. La zitella è una donna rifiutata dall'amore, e l'amore non aveva
avuto a che fare con lei più di quanto non avesse avuto a che fare con Don Priamo. Era rimasta
così, allo stesso modo come tante altre si erano sposate: con la certezza dello zio prete, della
vecchia nonna, di se stessa. Soprattutto di se stessa, perché nel suo tranquillo orizzonte, e forse
proprio per la presenza di quel prete in casa, sentiva l'eternità del suo passaggio sulla terra, di
ogni passaggio, l'eternità delle piccole cose che si fanno, dei preparare il pranzo e la cena, del
fare la calza, del conversare sul divano del salottino, con la Madonna e i santi sotto le campane
di vetro. E chi è eterno non si sposa. In quell'eternità penetrava quasi ogni giorno da almeno
vent'anni Don Priamo. Scendeva all'imbrunire da Santa Maria, e andava a sedersi su quel
divano, immergendosi in quei silenziosi conversari. Era la sola conoscenza che avesse, ed era
sempre il benvenuto, perché era di buona famiglia, e dava, quando ne era richiesto, dei buoni
consigli. Tanto lui quanto Canonico Murtas avevano l'uso del tabaccare, e si scambiavano le
prese dalle tabacchiere di madreperla.
Ora (questo doveva raccontarlo lo stesso Don Priamo vent'anni dopo al nipote più piccolo, una
sera d'inverno, sul canto del focolare), in uno dei tanti giorni che trascorrevano nella casa di
Santa Maria, era accaduto che Don Priamo guardasse il padre, che si era addormentato mentre
mangiava, e si accorgesse che era vecchio. Aveva già passato gli ottanta. Una cosa gli apparve
allora molto chiara: e cioè che il padre poteva morire. E se il padre fosse morto, egli sarebbe
rimasto completamente solo, in balìa di una domestica, anche lui già così avanti negli anni.
Quella solitudine lo spaventò. Allora aveva preso il cappello (che aveva mantenuto la forma che
aveva dal cappellaio, con una leggera ammaccatura da un lato) e aveva varcato la soglia della
casetta del canonico. Un giorno assolutamente come un altro. Il canonico non era ancora tornato, e Franceschina lo attendeva seduta sul divano. Don Priamo, quella volta non si sedette,
ma rivolgendosi a lei, le disse: «Sono venuto per chiederle se vuol venire a casa mia a far da
padrona». Poi, senza lasciarle il tempo di riaversi : «Una cosa le aggiungo. Non mi risponda
subito. E se mi dirà di no, non pensi che me ne avrò a male. Resteremo amici come prima». E se
ne andò a casa, senza neppure salutare.
Franceschina doveva aver risposto di sì, perché ora erano in tre nella casa di Santa Maria. Nulla
era cambiato, né in lei né fuori di lei: solo che chiamava Priamo quell'uomo che per vent'anni
aveva considerato con soggezione, e l'aveva fatta diventare Donna Franceschina (un titolo un
po' in contrasto col dialetto dei paesi che non era mai riuscita a sostituire con la severa parlata
di Nuoro). Nessun matrimonio era stato più felice, perché Franceschina non aveva fatto che
estendere al rapporto coniugale la sua certezza. Figli non ne erano venuti, ma questo non
aveva nessuna importanza. Né l'uno né l'altra sentivano il bisogno di continuarsi, perché non
avevano il senso della propria incompletezza. Per i beni ci sarebbe stato tempo a pensarci, e
anche quelli in fondo erano legati alla propria esistenza, di cui erano tranquillamente convinti.
Il cambiamento che si era introdotto nella vita di Don Priamo era che, all'imbrunire, quando
egli doveva tornare a cavallo dalla campagna, Franceschina si metteva alla finestra incorniciata
di bianco, grande come una feritoia, e aspettava il marito. Don Priamo la vedeva di lontano, e
l'ombra di un sorriso illuminava i suoi occhi foschi, tagliati a mandorla. I nuoresi se ne erano
accorti, e uscivano dai casolari per assistere alla scena.
Il sorriso di Don Priamo non era ridicolo. Era il segno dell'infinito che entrava in quella finita
società coniugale, fatta di piccole opere quotidiane, di modesti adempimenti, così perfetta che
non aveva neppure bisogno di Dio. Le campane della chiesa incombente invano battevano l'ora
che passa: nella casa di Priamo e di Franceschina il tempo non passava affatto. La sola novità
era che Don Priamo, sposando Franceschina, aveva scoperto lo spazio, perché gli era toccato
andare per la prima volta fuori di Nuoro, a Olzai, per presentarsi ai parenti della moglie. Venti
chilometri a cavallo: un'impresa che non si sarebbe ripetuta mai più. Franceschina aveva
qualche piccola cosa al suo paese, ma egli l'avrebbe scrupolosamente amministrata senza
bisogno di muoversi. Gli affittuari sarebbero venuti loro, al momento giusto, con i danari
dell'affitto, e con i formaggi nella bisaccia, che sapevano di mirto e di menta. Con l'occasione,
anch'essi avrebbero chiesto a Don Priamo dei buoni consigli.
E questo Don Priamo, il fratello Matteo l'aveva già collocato nell'inferno, in attesa che
Franceschina lo raggiungesse.