In quanto traduttore, ho sempre provato un certo interesse per il linguaggio, i suoi utilizzi e le sue implicazioni: parafrasando il film "Arrival", il linguaggio può essere il collante della civiltà, ma anche la prima arma sfoderata in un conflitto.
Ed è proprio tale funzione conflittuale e antagonistica al centro di questo libro di Michela Murgia: partendo da uno spiacevole episodio che l'ha vista protagonista, quando venne attaccata verbalmente durante il suo programma radio da un ospite con uno "Stai zitta" ripetuto più e più volte, Murgia costruisce una riflessione più ampia sulle parole, le frasi e le argomentazioni espressioni del patriarcato, di quella mentalità maschilista che punta a sminuire, addomesticare e sottomettere le donne, da "donna con le palle" a "si tinge di rosa", passando per "mamma", "fattela una risata" e via discorrendo, riflessione che non si limita alla dimensione linguistica, ma esplora anche la politica, i media e questioni sociali come il gender gap e la cultura dello stupro.
Sebbene molte delle riflessioni espresse qui non mi risultassero nuove, in parte per deformazione professionale, in parte perché le ho già viste argomentate da altre scrittrici e attiviste impegnate su questo fronte (come Vera Gheno), lo stile schietto e pungente di Murgia e la pletora di esempi eloquenti ha dato nuova vita ad argomentazioni che ritenevo ormai assodate, fornendomi nuovi spunti di riflessione e accompagnandomi in una lettura sì rapida, ma anche pregna di ispirazione e pensiero critico, sia in merito al linguaggio utilizzato nella società che mi circonda, sia in quello utilizzato da me personalmente. Il libro, chiaramente, si rivolge in larga parte a un pubblico femminile, ma allo stesso tempo non fa mistero di puntare anche a scardinare convinzioni e dogmi patriarcali in favore del pubblico maschile, cercando di far aprire gli occhi su certi usi distorti del linguaggio con fervore, sì, ma senza mai cadere nella trappola della generalizzazione o della colpevolizzazione a tutti i costi. In fondo, il problema non è l'uomo singolo, né la collettività maschile, ma il sistema nel quale nasce e prolifera una certa idea di uomo malsana, immatura, violenta e fondamentalmente sbagliata che viene inculcata fin dalla tenera età, per colpa anche di un uso errato del linguaggio, specie nei confronti delle donne.
Citando le battute finali del libro:
"La politica del linguaggio in questo scenario non sembra la cosa più importante da perseguire, ma è invece quella da cui prendono le mosse tutte le altre, perché il modo in cui nominiamo la realtà è anche quello in cui finiamo per abitarla."