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La luna e i falò (Paperback, Italiano language, 1950, Einaudi) 5 stelle

«La luna e i falò - scrisse Piero Jahier nel ’50, quando questo romanzo di …

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4 stelle

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La luna e i falò, ultimo romanzo di Cesare Pavese, è denso di significato ed è la sintesi dei temi cari all'autore. Come mi era già accaduto leggendo Paesi tuoi (qui la mia recensione), Pavese ha la capacità di catapultare il lettore in un mondo contadino ormai quasi perduto e di farglielo percepire a tutto tondo.

Ci sono, infatti, in questo romanzo un aspetto fanciullesco della campagna e un aspetto più adulto, a tratti oscuro. Quando il protagonista ritorna in campagna, si tratta di un ritorno nei luoghi della sua giovinezza, con gli occhi della quale tutto gli sembrava luminoso e pieno di vita. Il suo sguardo di adulto, invece, coglie le ombre di questo mondo apparentemente bucolico e semplice.

De La luna e i falò, poi, mi ha colpito moltissimo la solitudine che traspare dalle pagine. Il protagonista, orfano ed emigrato in cerca di fortuna, ritorna nella sua terra natale in cerca delle sue radici. Tuttavia, ben presto si renderà conto di essere troppo cambiato per trovare alcunché nella campagna dov'è cresciuto: il suo vecchio amico Nuto gli dirà, infatti, che, prima di pontificare sull'ininfluenza delle fasi lunari e dei falò propiziatori, avrebbe dovuto tornare a essere un contadino. Così il protagonista si ritroverà incapace di riadattarsi alla vita di campagna, pur non essendo del tutto a suo agio nella vita di città: la sua solitudine sarà tanto profonda proprio per il suo essere sradicato, per la sua condizione esule senza una famiglia dalla quale partire e ritornare.

Sapendo che La luna e i falò fu scritto da Pavese tra settembre e novembre 1949 e che nell'agosto 1950 l'autore si sarebbe suicidato in una stanza d'albergo, questo senso di solitudine incolmabile mi ha scosso parecchio. Forse mi sono autosuggestionata, ma l'idea che qualcuno di senta così solo da non poter essere raggiunto da nessuno dei suoi affetti mi ha dato molto da pensare. “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”: questo è stato il biglietto di addio di Pavese, sulla falsariga di quello di Majakovskij. Come a dire, sono passato, ho rotto le scatole a qualcuno e qualcuno le ha rotte a me: abbiate pazienza, ora levo le tende e amici come prima.