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Primo Levi: Se questo è un uomo (Hardcover, Italiano language, 2002, Gruppo Editoriale L'Espresso) 4 stelle

Scritto fra la fine del 1945 e l’inizio del 1947, quindi immediatamente a ridosso dei …

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5 stelle

Puoi trovare questa recensione anche sul mio blog, La siepe di more

Confesso di essere arrivata piuttosto amareggiata a questa Giornata della Memoria 2018: in quest’ultimo periodo ho sentito un’affermazione razzista di troppo e ho visto un rigurgito fascista di troppo. Un sacco di gente sembra pronta a proclamare la nostra Costituzione la più bella del mondo, ma decisamente meno sembrano coloro che ne seguono (o anche solo ne conoscono) il contenuto.

Così, in questo momento di sconforto, ho pensato di riprendere in mano uno dei grandi classici, quello che per me è il resoconto per eccellenza della Shoah (senza nulla togliere agli altri, ovviamente, la mia è una mera considerazione personale): Se questo è un uomo di Primo Levi, la testimonianza che più di ogni altra mi ha fatto capire quanto male si possa fare con un niente.

L’infermiere indica all’altro le mie costole, come se fossi un cadavere in sala anatomica; accenna alle palpebre e alle guance gonfie e al collo sottile, si curva e preme coll’indice sulla mia tibia e fa notare all’altro la profonda incavatura che il dito lascia nella carne pallida, come nella cera.

Vorrei non aver mai rivolto la parola al polacco: mi pare di non avere mai, in tutta la mia vita, subito un affronto più atroce di questo. L’infermiere intanto pare abbia finito la sua dimostrazione, nella sua lingua che io non capisco e che mi suona terribile; si rivolge a me, e in quasi-tedesco, caritatevolmente, me ne fornisce il compendio: «Du Jude kaputt. Du schnell Krematorium fertig» (tu ebreo spacciato, tu presto crematorio, finito).


Ho sempre trovato la testimonianza di Levi particolarmente straziante proprio per il suo concentrarsi non tanto sulla crudeltà, ma sul totale annientamento della dignità e dell’umanità di tutte le persone ritenute inferiori e sull’incapacità di riconoscere se stessi nell’altro.

Ai piedi della forca, le SS ci guardano passare con occhi indifferenti: la loro opera è compiuta, e ben compiuta. I russi possono ormai venire: non vi sono più uomini forti fra noi, l’ultimo pende ora sopra i nostri capi, e per gli altri, pochi capestri sono bastati. Possono venire i russi: non troveranno che noi domati, noi spenti, degno ormai della morte inerme che ci attende.

Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete da temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.

Alberto e io siamo rientrati in baracca, e non abbiamo potuto guardarci in viso. Quell’uomo doveva essere duro, doveva essere di un altro metallo del nostro, se questa condizione, da cui noi siamo stati rotti, non ha potuto piegarlo.

Perché, anche noi siamo rotti, vinti: anche se abbiamo saputo adattarci, anche se abbiamo finalmente imparato a trovare il nostro cibo e a reggere alla fatica e al freddo, anche se ritorneremo.

Abbiamo issato la menaschka sulla cuccetta, abbiamo fatto la riparazione, abbiamo soddisfatto la rabbia quotidiana di fame, e ora ci opprime la vergogna.


Spero che oggi a chi osa celebrare la Giornata della Memoria dopo aver giocato con dichiarazioni e azioni fasciste e razziste vada di traverso il boccone.