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Darius the Great is not okay (2018, Dial Books, An imprint of Penguin Random House Inc.) 5 stelle

Darius Kellner speaks better Klingon than Farsi, and he knows more about Hobbit social cues …

Review of 'Darius the Great is not okay' on 'Goodreads'

5 stelle

Puoi trovare questa recensione anche sul mio blog, La siepe di more

Comincio questa recensione con una buona notizia: il 16 novembre scorso questo romanzo è arrivato anche in Italia grazie a Rizzoli con il titolo Darius, va tutto bene (forse). Vi consiglio caldamente di leggerlo per almeno due motivi: il primo riguarda il modo in cui viene mostrata la depressione; l’altro per il modo in cui viene raccontata la vita di un ragazzo a cavallo tra due culture, quella statunitense e quella iraniana.

A differenza della maggior parte dei romanzi YA che ho letto, dove la depressione viene diagnosticata alla fine della storia, come soluzione al malessere dellǝ protagonista, in Darius the Great Is Not Okay sappiamo fin da subito che Darius ha la depressione e che il suo punto di vista viene distorto da questa malattia. Khorram quindi descrive la quotidianità di un ragazzo con la depressione e, sebbene non ci siano episodi particolarmente bui, ogni tanto dovevo mettere giù l’ereader e fare una pausa.

L’autore è molto abile nel mostrare come quelle volte in cui persone alle quali vogliamo bene fanno o dicono qualcosa che ci ferisce vengono amplificate dalla depressione, che fa sì che non si riesca a contestualizzarle e che finisce per farcene una colpa: la colpa di essere sbagliatз, rottз e mai abbastanza per nessunǝ. Non è vero, ovviamente – il finale di Darius the Great Is Not Okay è abbastanza illuminante in questo – ma massimo rispetto per chi ha a che fare ogni giorno con la depressione.

Un altro elemento di grande interesse per me è stata la prima visita di Darius nel Paese di origine della madre, l’Iran, al quale sente di non appartenere pienamente perché non ha mai imparato il farsi e perché attraverso le videochiamate non è riuscito a costruire una buona relazione con i nonni materni. Quindi entriamo in Iran con gli occhi di Darius e, sebbene Khorram renda evidente il fatto che non si tratti di uno stato democratico, ho apprezzato molto il fatto che la cultura iraniana e quella statunitense siano sullo stesso piano.

E poi c’è un sacco di tè. Devo assolutamente procacciarmi del genmaicha (il tè verde con riso integrale tostato! Deve essere buonissimo!), mentre Darius mi ha letteralmente spezzato il cuore perché non ama il Pu-erh (sa di terra, che esagerato!).