Baylee ha recensito Station Eleven di Emily St. John Mandel
Station Eleven
4 stelle
Puoi trovare questa recensione anche sul mio blog, La siepe di more
Inizio con due informazioni di servizio: con la prima vi ricordo che questo libro è disponibile anche in italiano, edito da Bompiani con il titolo Stazione Undici; con la seconda confesso di aver involontariamente un po’ barato per questa task perché solo una parte del libro è ambientata nel Midwest. Eh va be’.
Cosa scrivere di Station Eleven? È uno strano libro: tra le sue pagine non ho trovato niente di nuovo, niente che non avesse già letto in altri romanzi. Compare un nuovo virus influenzale e la malattia che si diffonde rapidamente e altrettanto rapidamente uccide, senza dare tempo al personale sanitario o a chicchessia di prendere le giuste precauzioni o organizzare un lockdown. Insomma, SARS-CoV-2 e COVID-19 scansatevi. Finisce la civiltà per come la conosciamo e seguiamo un gruppo di persone in questa nuova realtà post-apocalittica.
Però.
Però questo romanzo mi è ronzato in testa per giorni e ci sono diversi passaggi nei quali ha toccato i miei punti deboli: è una storia sulle reazioni umane a un evento così catastrofico e poche cose mi commuovono come la messa a nudo della fragilità umana. St. John Mandel è stata molto abile nel mantenere l’equilibrio tra gli estremi che spesso caratterizzano questo tipo di storie, cioè non è mai troppo catastrofista e non è mai troppo ottimista: i suoi personaggi si muovono in un mondo abitato da persone traumatizzate e da giovani che non hanno mai conosciuto altro che quella civiltà disfatta.
Il prima diventa un ricordo, un rimpianto o un racconto meraviglioso. Un tempo c’era energia elettrica a illuminare le notti. Perché non ho imparato com’è fatto e come funzionava un computer per poterlo spiegare? Davvero si poteva volare con gli aerei? Il dopo, di conseguenza, viene plasmato dalla reazione al trauma, che varia da persona a persona, perché diverse sono le loro idee, le loro storie, i loro caratteri. Non è detto che sia una reazione positiva; a volte è solo la presa di coscienza di non poter vivere dopo il collasso della tua civiltà. Magari perché l’antidepressivo che prendevi non esiste più.
Penso che Station Eleven mi sia rimasto così tanto in testa semplicemente perché, senza sentimentalismi, racconta delle piccole grandi cose che rendono piacevole (e a volte possibile) la nostra esistenza. È vero che la nostra società ha dei problemi macroscopici – anzi, direi che alcuni sono proprio giganteschi – ma abbiamo anche inventato un sacco di cose belle. Dobbiamo “solo” diventare più bravз a difenderle e condividerle. “Solo”.