Baylee ha recensito Lo spirituale nell'arte di Wassily Kandinsky
Lo spirituale nell’arte
4 stelle
Ho recuperato questo libricino perché l’ho visto citato in I segreti dei tarocchi Rider Waite Smith e ha acceso la mia curiosità. È stato con mia grande sorpresa che mi sono trovata a leggere delle considerazioni molto interessanti di Kandinsky sull’arte, che si applicano molto bene a una riflessione sullo stato della letteratura nel nostro tempo, argomento che periodicamente ritorna nei nostri blog per la nostra perplessità di lettorə su alcune dinamiche all’interno dell’universo editoriale.
Due avvertenze: la prima è che il libro di Kandinsky ovviamente parla perlopiù di pittura, mentre io sono rimasta folgorata dall’applicazione che le sue riflessioni possono avere in altri ambiti artistici, con l’aggravante che queste riflessioni coprono solo le prime venti pagine del saggio. Quindi, ecco, siete avvertitə che sto per sproloquiare su una frazione di quello che Kandinsky voleva esprimere – chiedo umilmente perdono.
La seconda avvertenza riguarda il fatto che, se anche voi …
Ho recuperato questo libricino perché l’ho visto citato in I segreti dei tarocchi Rider Waite Smith e ha acceso la mia curiosità. È stato con mia grande sorpresa che mi sono trovata a leggere delle considerazioni molto interessanti di Kandinsky sull’arte, che si applicano molto bene a una riflessione sullo stato della letteratura nel nostro tempo, argomento che periodicamente ritorna nei nostri blog per la nostra perplessità di lettorə su alcune dinamiche all’interno dell’universo editoriale.
Due avvertenze: la prima è che il libro di Kandinsky ovviamente parla perlopiù di pittura, mentre io sono rimasta folgorata dall’applicazione che le sue riflessioni possono avere in altri ambiti artistici, con l’aggravante che queste riflessioni coprono solo le prime venti pagine del saggio. Quindi, ecco, siete avvertitə che sto per sproloquiare su una frazione di quello che Kandinsky voleva esprimere – chiedo umilmente perdono.
La seconda avvertenza riguarda il fatto che, se anche voi volete leggere questo libriccino, preparatevi a leggere un testo che in alcuni punti è piuttosto criptico ed ermetico: è abbastanza breve da non costituire chissà quale grande ostacolo, ma davanti ad alcuni passaggi si rimane un po’ perplessə.
Ora che sapete a cosa andrete incontro, posso iniziare lo sproloquio.
Ogni opera d’arte è figlia del suo tempo, e spesso è madre dei nostri sentimenti. Analogamente, ogni periodo culturale esprime una sua arte, che non si ripeterà mai più. Lo sforza di ridar vita a princìpi estetici del passato può creare al massimo delle opere d’arte che sembrano bambini nati morti.
Ecco, anche a questo servono le grandi figure dell’arte: a dare forma ai pensieri informi nella tua testa. Ditemi se questa citazione non sembra racchiudere in sé la bruttura e l’insensatezza di molto materiale (ri)narrato ai giorni nostri. Siamo circondatə da bambinə natə mortə, che siano film, romanzi o serie tv, e purtroppo sembra che il marketing abbia ancora da far ballare questi cadaveri putrescenti.
L’arte che non ha avvenire, che è solo figlia del suo tempo ma non diventerà mai madre del futuro, è un’arte sterile. Ha vita breve e muore moralmente nell’attimo in cui cambia l’atmosfera che l’ha prodotta. Anche l’altra arte, suscettibile di nuovi sviluppi, è radicata nella propria epoca, ma non si limita a esserne un’eco e un riflesso; possiede invece una stimolante ‘forza profetica’, capace di esercitare un’influenza ampia e profonda.
L’altro problema del nostro tempo sembra la mancanza di opere che danno l’idea di avere un peso specifico tale da rimanere importanti anche in futuro. Ovviamente, ci sono delle opere bellissime e importanti anche ora e solo il senno del poi ci potrà dire se rimarranno rilevanti, ma permane comunque la sensazione che la mole di opere irrilevanti sia soverchiante. Una sensazione che per me non deriva solo dal quantitativo spaventoso di nuovi titoli sfornati ogni mese dal mercato, ma anche dal disorientamento provocato da coloro che dovrebbero, come professione, indirizzare verso i titoli migliori, e invece finiscono per rendere torbide le acque della sincerità e dell’onestà con sponsorizzazioni più o meno manifeste.
Poiché in tempi simili l’artista medio non ha bisogno di dire molto e gli basta un minimo di «diversità» per farsi notare e osannare da certi gruppetti di mecenati e conoscitori (il che può comportare grandi vantaggi materiali), una gran massa di persone superficialmente dotate si butta sull’arte, che sembra così facile. In ogni «centro artistico» vivono migliaia e migliaia di artisti, la maggior parte dei quali cerca solo una maniera nuova, e crea milioni di opere d’arte col cuore freddo e l’anima addormentata. La «concorrenza» cresce. La caccia spietata al successo rende la ricerca sempre più superficiale. I piccoli gruppi, che casualmente si sono sottratti a questo caos di artisti e di immagini si trincerano nelle posizioni conquistate. Il pubblico, che è rimasto arretrato, guarda senza capire, non ha interesse per un’arte simile e le volta tranquillamente le spalle.
È opinione diffusa che siccome si impara a scrivere da bambinə chiunque possa dilettarsi nel diventare scrittorə. Come se per intraprendere questa professione non servisse alcun talento particolare, nessuno studio o nessuna pratica: se hai una storia che ti ronza in testa, basta che la scrivi ed è fatta. Eppure far notare che buttare giù un’idea, anche se buona, non è affatto sufficiente – a meno di non avere davvero un talento speciale – e porta solo ad aumentare il numero di libri monnezza che si affastellano nelle librerie può portare a conversazioni davvero surreali.
A un colloquio di lavoro dove era venuto fuori che amavo leggere, una tizia, completamente a caso, mi disse che dovevo assolutamente scrivere un libro. Magari si era solo rotta le scatole di ascoltare persone in cerca di uno stipendio, ma le feci gentilmente notare che non era il caso perché leggere tanto non mi rendeva automaticamente una donna che sa scrivere. Non l’avessi mai detto: questa mi si è inalberata e ha iniziato a dirmi che non dovevo sminuire le mie capacità – quali capacità? – e provare a scrivere quella storia che avevo in testa – chi ha detto che avevo una storia in testa?
Manco a dirlo, quel lavoro non l’ho avuto e non ricordo come svicolai da questa situazione alla quale non avevo pensato di prepararmi: la convinzione granitica che se leggi tanto sai scrivere e se sai scrivere hai una storia in testa e se hai una storia in testa una tizia a caso durante un colloquio di lavoro ha il dovere di spronarti a scriverla. Ma anche no.
Leggere molto mi ha dato la consapevolezza di quanto sia difficile farlo: per scrivere un buon romanzo non basta avere una buona idea, se consideriamo che a volte non basta nemmeno avere il talento. Pensiamo a Stephen King: di sicuro ha le idee e il talento, eppure non ha scritto solo capolavori indimenticabili. Quindi possiamo smettere si osannare l’ultima trashata come se fosse oro colato e prenderla per quello che è: una roba che vorrebbe essere letteratura, ma non ce la fa e che eventualmente ci piace perché ci fa piacere una dose di storie idiote per rilassarsi. Niente di più, niente di meno.